I 6 Bias Cognitivi che ci rendono stupidi e manipolabili
Mai sentito parlare di Bias Cognitivi? A prescindere dalla risposta, sappi che hanno un impatto enorme sulla tua vita e sulle tue decisioni.
I bias cognitivi (chiamati anche euristiche) sono delle scorciatoie mentali che il nostro cervello usa quando è tenuto a prendere decisioni importanti.
Il cervello, infatti, è un organo meraviglioso, in grado di fare cose incredibili se usato con il giusto metodo. Tuttavia, ha un unico e grande difetto: ama risparmiare energia.
In generale, possiamo dire che meno lavora più è contento e per questo quando si tratta di svolgere compiti molto complessi, come prendere una decisione importante, tende a cercare delle scorciatoie per arrivare allo stesso risultato con il minor sforzo.
I bias cognitivi nascono proprio da qui, dallo stesso organo che ci permette di fare cose strabilianti, che ci spinge oltre i nostri stessi limiti ma che, purtroppo, ci rende anche irrazionali, influenzabili, suggestionabili e, in sostanza… stupidi.
Oggi, quindi, vedremo 6 esperimenti che mi hanno colpito e insegnato qualcosa su questo tema (e che sono certo sorprenderanno anche te).
Molti di questi studi provengono dal lavoro accademico dello psicologo e premio nobel Daniel Kahneman, raccolti nel suo libro Pensieri lenti e veloci. Un vero e proprio must-read se vuoi entrare davvero nel vivo di questi temi (e uno dei miei 5 libri preferiti in assoluto).
In caso lo preferissi alla lettura, qui sotto trovi anche il video YouTube che ho fatto a tema bias cognitivi:
Bias della Rappresentatività: il caso di Linda
Per questo esperimento voglio che partecipi anche tu. Leggi la storia di Linda e poi scegli l’opzione che ti sembra più probabile:
Linda ha 31 anni, è single, schietta e molto brillante. Si è laureata in filosofia, da studentessa si è occupata di questioni di discriminazione e giustizia sociale e ha partecipato a delle manifestazioni antinucleari.
Molto bene. Ora dimmi, quale di questi scenari ti sembra il più probabile?
- A: Linda è una cassiera di banca;
- B: Linda è una cassiera di banca ed è attiva nel movimento femminista.
Durante il vero studio, l’85% dei partecipanti rispose B. Decisione sensata? Forse non così tanto.
Se ci pensi, infatti, il fatto che Linda, oltre a essere una cassiera di banca, sia anche femminista è sempre meno probabile del fatto che non lo sia.
Per capirlo meglio, guarda questo diagramma di Venn, è più chiara ora la cosa?

Come vedi, l’insieme “cassiere di banca femministe” è compreso nell’insieme più grande “cassiere di banca”. Ne consegue che non tutte le cassiere di banca sono femministe, ma tutte le cassiere di banca femministe sono cassiere di banca. Dunque, in assenza di altri elementi, è più probabile che Linda appartenga all’insieme più grande che non al più piccolo.
Aggiungere dettagli in più (il femminismo) riduce la probabilità iniziale, ma non secondo la nostra mente. Ci facciamo trasportare dalla storia di Linda, iniziamo a immaginarcela e, così, scegliamo l’opzione che più si avvicina alla nostra rappresentazione mentale.
Kahneman chiama questo paradosso “il meno è il più”, per sottolineare come l’aggiungere caratteristiche coerenti con la nostra rappresentazione mentale ci porta a ritenere qualcosa più probabile.
Il bias in questione è il Bias della rappresentatività e, se vuoi approfondire l’argomento e avere qualche esempio in più, ti consiglio di leggere questo articolo sui bias cognitivi.
Effetto alone
Ti capita mai di amare o detestare una persona “a pelle”, poco dopo averla conosciuta?
Nella nostra società prime impressioni come queste sono all’ordine del giorno. Infatti, spesso tendiamo a giudicare e categorizzare chi ci sta intorno pur non avendo informazioni sufficienti per farlo.
Ci ritroviamo a dare fiducia a qualcuno senza sapere perché, magari basandoci su un sorriso, sul tono della voce o su pochi secondi di conversazione, criteri del tutto inaffidabili.

Tutto ciò è colpa dell’Effetto Alone e c’è un interessantissimo esperimento che lo dimostra.
Solomon Asch elencò ai volontari una serie di caratteristiche di due soggetti, per poi chiedere loro quale tra i due gli avesse fatto una impressione migliore:
Alan: intelligente, industrioso, impulsivo, critico, ostinato, invidioso.
Ben: invidioso, ostinato, critico, impulsivo, industrioso, intelligente.
La maggior parte delle persone coinvolte – e forse anche tu – hanno avuto un’impressione migliore per Alan.
Questo perché le caratteristiche iniziali, positive per Alan (“intelligente” e “industrioso”) ma negative per Ben (“invidioso” e “ostinato”) danno il contesto in cui si inseriscono quelle successive.
Il bello però è che tutte le caratteristiche sono identiche, sono solo presentate in ordine inverso.
A quanto pare, però, l’ordine è sufficiente per cambiare l’opinione che si ha di qualcuno. Tendiamo a rispettare l’ostinazione di una persona intelligente, mentre l’intelligenza di una persona ostinata e invidiosa la rende solo più pericolosa.
Nella vita la “sequenza” con cui entriamo in contatto con gli aspetti di una persona è del tutto casuale, ma per noi conta eccome. Ecco perché diamo così tanto peso alle prime impressioni.
Bias della sostituzione: come evitiamo le domande importanti
Torniamo a parlare di prime impressioni e, in particolare, delle opinioni affrettate che ci facciamo non solo su chi ci circonda, ma su tutto quanto, inclusi noi stessi.
Ciò è dovuto a un processo di sostituzione delle domande creato dalla già citata pigrizia mentale del nostro cervello.
In poche parole, se non troviamo in fretta una risposta adeguata a una domanda, inconsciamente ci poniamo una seconda domanda e rispondiamo a quella.
Kahneman divide i due tipi di domande in questo modo:
- La domanda bersaglio è quella reale, a cui si dovrebbe rispondere;
- La domanda euristica è quella più semplice, che sostituisce la prima poiché è più facile trovarvi una risposta.

Per farti capire meglio, eccoti qualche esempio di domanda bersaglio a confronto con la sua controparte euristica.
Quanti soldi daresti per salvare una specie in pericolo? / Quanta emozione provo quando penso ai delfini moribondi?
Quanto sei contento/a della tua vita in questo periodo? / Di che umore sono in questo periodo?
Come vedi, però, le domande euristiche producono risposte molto diverse dalle loro controparti bersaglio e le prime non sono molto adatte a rispondere alle seconde.
Per compensare questa cosa, il nostro cervello tenta di rielaborarle secondo un “matching di intensità” che in questi casi significa, da un lato, esprimere in euro il mio dolore quando penso ai delfini moribondi e, dall’altro, estendere il mio umore del momento alla mia intera vita.
Euristica dell’umore: l’amore ci rende davvero più felici?
Ora che conosci questo strano processo mentale, voglio parlarti di uno studio fatto su alcuni studenti tedeschi, per indagare la sostituzione di cui abbiamo appena parlato e la cosiddetta Euristica dell’umore.
Ai ragazzi vennero fatte due domande:
Quanto sei felice in questo periodo?
Quanti appuntamenti amorosi hai avuto il mese scorso?
Come forse avrai notato, agli sperimentatori interessava sapere se chi aveva avuto più appuntamenti si sarebbe dichiarato più felice di chi ne aveva avuti di meno. Tuttavia, la risposta fu negativa. Lo studio sembrava dimostrare che gli appuntamenti amorosi non sono la prima cosa che viene in mente agli studenti quando si parla di felicità.

La cosa interessante, però, arriva ora.
I ricercatori fecero le stesse domande a un altro gruppo, ma invertite:
Quanti appuntamenti amorosi hai avuto il mese scorso?
Quanto sei felice in questo periodo?
I risultati furono del tutto diversi. In questo caso la correlazione fu percepita eccome, ciò a causa della reazione emotiva causata dal riflettere sulla propria vita sentimentale.
Questa reazione emotiva poteva essere positiva in chi aveva avuto molti appuntamenti e negativa in chi ne aveva avuti meno che, invece, ricordava un certo senso di rifiuto e solitudine.
Perciò, quando veniva fatta la seconda domanda, questa era influenzata dallo stato emotivo causato della prima, che i partecipanti stavano ancora vivendo. Ed ecco quindi che la domanda bersaglio: “quanto sei felice in questo momento?”, diventava una più facile domanda euristica: “quando sono felice della mia vita amorosa?”.
In generale, quindi, ricorda che spesso la tua soddisfazione in un campo specifico della vita determina la tua felicità generale. Di tanto in tanto, chiediti se stai rispondendo davvero alla domanda bersaglio o l’hai solo sostituita con una più facile.
Effetto Ancoraggio
Dopo la mia avventura con il Blackjack, torniamo a parlare ci casinò, ma questa volta in maniera diversa, con l’Effetto Ancoraggio.
Per un esperimento, infatti, Kahneman e il suo collega e amico Amos Tversky truccarono una roulette. Esatto, hai capito bene. La roulette aveva ancora tutti i numeri ma poteva fermarsi solo sul 10 o sul 65.

I due ricercatori presero poi degli studenti e gli fecero annotare i numeri che uscivano. Fatto questo, gli fecero due domande:
La percentuale di nazioni africane in seno all’ONU è maggiore o minore del numero che avete scritto?
Secondo voi, qual è la percentuale di nazioni africane in seno all’ONU?
Di fatto il risultato di una roulette non ha nulla a che vedere con le nazioni africane in seno all’ONU, è un dato inutile che andrebbe semplicemente ignorato. Eppure, i ragazzi non lo ignorarono. Al contrario, le stime medie di coloro che videro 10 e 65 furono rispettivamente il 25 e il 45%.
Questa è una chiara dimostrazione di Effetto Ancoraggio, che si verifica quando bisogna assegnare un valore sconosciuto a qualcosa partendo da un dato noto, a prescindere dal fatto che quest’ultimo sia pertinente oppure no.
Bias vs Mindset: quando la mente vince sul corpo
Alia J. Crum è una psicologa americana e professoressa alla Stanford University, nonché ricercatrice allo Stanford Mind and Body Lab. I suoi studi si concentrano principalmente sul modo in cui il mindset del singolo individuo è in grado di alterare la realtà oggettiva tramite meccanismi psicologici, fisiologici e comportamentali.
Qualche tempo fa è stata ospite nel podcast del celebre neuroscienziato Andrew Huberman, per parlare proprio degli effetti del mindset sulla salute e sulla performance.
La dottoressa Crum ha raccontato un suo esperimento fatto durante il suo dottorato a Yale, il quale ha avuto risultati a dir poco stupefacenti.
La domanda di partenza era la seguente:
“Possono le nostre credenze su ciò che mangiamo cambiare la reazione fisiologica del nostro corpo a quel cibo?”
La domanda deriva da ciò che sappiamo sull’effetto placebo, ossia quella situazione in cui, ad esempio, se si dà a qualcuno uno zuccherino facendogli credere che sia una medicina, il suo corpo reagirà in modo simile a come farebbe se avesse assunto un farmaco vero e proprio.
Per questo esperimento, però, si decise di dare ai partecipanti qualcosa di molto più allettante di farmaci o zuccherini: un milkshake.

Un gruppo di soggetti venne portato in un laboratorio in cui, per quel che ne sapevano, i ricercatori stavano creando una serie di milkshake dal diverso profilo nutrizionale, per venire incontro a chi segue regimi alimentari particolari.
I ricercatori fecero bere ai partecipanti due milkshake diversi, a distanza di una settimana l’uno dall’altro. Venne detto loro che uno era pieno di grassi e di zuccheri, una bomba calorica da 620 calorie, mentre il secondo era dietetico, quindi molto basso di calorie.
Tuttavia, entrambe le informazioni erano false. I milkshake erano del tutto uguali sotto il profilo nutrizionale e avevano circa 300 calorie l’uno.
Se ti stessi chiedendo che senso avesse ingozzare di milkshake un gruppo di persone beh, te lo spiego subito.
Tutti noi, nel nostro corpo, abbiamo un ormone chiamato grelina, detto anche “ormone della fame”. È prodotto dallo stomaco e dal pancreas ed è ciò che stimola l’appetito. Per dirla in modo semplice: più hai bisogno di mangiare e più ne produce, più sei sazio e più la produzione cala.
Tornando al nostro esperimento, verrebbe da pensare che bevendo due milkshake esattamente uguali la grelina dovrebbe calare allo stesso modo in entrambi i casi… vero?
…NO.
Crum e colleghi videro che la grelina calava molto di più quando i soggetti pensavano di avere bevuto un mikshake ipercalorico e, per contro, molto meno con quello dietetico.
Paradossalmente quindi, pensare di stare mangiando sano e quindi di stare assumendo meno calorie fa sentire più affamati rispetto al pensare di starsi riempiendo di calorie, cosa che può portare non solo ad avere più fame (e quindi a voler mangiare di più) ma anche ad avere un metabolismo più lento.
Bias dell’avversione alle perdite
Rispondi a questi due problemi:
- Preferiresti ricevere sicuramente 900€ o avere il 90% di probabilità di riceverne 1000?
- Preferiresti perdere sicuramente 900€ o avere il 90% di probabilità di perderne 1000?
Se sei come i soggetti presi in esame da Kahneman, ti sarai dimostrato avverso al rischio nella domanda 1 (preferendo i 900€ certi) ma propenso al rischio nella domanda 2 (preferendo di avere il 90% di probabilità di perdere 1000€).
La ragione dietro questo comportamento è semplice e sta nel concetto di perdita sicura. Nel secondo problema, infatti, tutte le opzioni sono negative e, in questi casi, è stato dimostrato che la gente diventa favorevole al rischio.

Prova ora a rispondere a queste domande:
3. Al tuo conto in banca sono appena stati aggiunti 1000€, preferiresti:
A. Avere il 50% di probabilità di vincere altri 1000€;
B. Ricevere sicuramente altri 500€.
4. Al tuo conto in banca sono appena stati aggiunti 2000€, preferiresti:
A. Avere il 50% di probabilità di perdere 1000€;
B. Perdere sicuramente 500€.
Questi due sono casi interessanti perché, se consideriamo gli outcome possibili, sono del tutto identici. In entrambi i casi infatti ci sono due scenari:
- Avere il 50% di probabilità di guadagnare 1000 o 2000€
- Guadagnare certamente 1500€
È evidente quindi che ciò che porta a fare scelte diverse è il modo in cui la situazione viene presentata. In particolare, mi riferisco ai punti di riferimento che vengono assegnati.
Il risultato finale di 1500€, infatti, è maggiore dei 1000€ di partenza del problema 3 (ed è quindi un guadagno) ma è minore dei 2000€ del problema 4 (e quindi una perdita).
Ora, onestamente, quanta attenzione hai prestato al “regalo” iniziale di 1000 o 2000€? Con ogni probabilità, a stento lo avrai notato.
Questo dimostra che i nostri atteggiamenti nei confronti dei rischi economici non cambiano per qualche migliaio di euro in più sul conto in banca (a meno che tu non sia in grave difficoltà economica). La risposta per cui la prospettiva di guadagno alletta di più è molto più elementare:
Vuoi vincere e detesti perdere.

Non solo, detesti perdere più di quanto non ti piaccia vincere. Le perdite, infatti, spesso ci appaiono molto più grandi dei guadagni e questo per chiare ragioni evolutive.
Una forma di vita che dà più importanza alle minacce rispetto che alle opportunità ha più probabilità di far fronte ai pericoli e sopravvivere.
Tutti noi possiamo stimare la nostra avversione alle perdite, basta chiederci:
“Qual è il guadagno minimo che per me compenserebbe la probabilità di perdere 100€?”
Secondo Kahneman, questo valore in media è di circa il doppio, quindi 200€, ma alcune persone possono essere più propense al rischio di altre. Ad esempio, chi lavora nel mondo dei mercati finanziari avrà un’avversione alle perdite inferiore, dato che le varie fluttuazioni non provocheranno le stesse reazioni emotive.
Conclusioni
Spero che questo articolo ti sia stato utile e che tu riesca a sfruttare ciò che hai imparato nell tua vita. Se ti interessa, ti lascio questo articolo sulle fallacie argomentative, in cui potrai capire come alcuni dei nostri errori cognitivi si applicano alla conversazione e soprattutto alle discussioni.
Se vuoi approfondire i temi della memoria, della produttività e del miglioramento personale continua a seguirmi sul blog!
Per finire, in basso ti lascio i link al mio canale YouTube e a tutti i miei altri canali social. Ci vediamo là.
A presto,
Andrea